Un estratto da “Geografie del Collasso” di Matteo Meschiari

Il nuovo libro di Matteo Meschiari

Ed eccoci arrivati al secondo tema della Linea, dopo il black metal antropocenico dei Wormwood.

Chi di voi conosce La Linea Laterale sa che da anni seguo il lavoro dell’antropologo Matteo Meschiari. Ogni suo libro è un’occasione per tornare su alcuni dei miei temi prediletti (antropocene, crisi ambientale, shift cognitivo, rapporto letteratura-collasso eccetera). Il volume appena uscito per Piano B, intitolato Geografie del collasso. L’Antropocene in 9 parole chiave, è direttamente collegato alle due uscite precedenti: La grande estinzione (2019, Armillaria) e Antropocene fantastico (2020, Armillaria). Questi tre libri formano una sorta di trilogia che dovrebbe interessare chiunque si occupi di scienza, antropologia, comunicazione e letteratura.

Più che nei due volumi precedenti, Meschiari ha voluto essere sistematico. Ha scelto 9 parole chiave (eccole: Collasso, Catastrofe, Cosmologia, Stupidità, Complessità, Trauma, Sopravvivenza, Immaginazione, Cultura) per parlare in realtà di due grandi temi: 1) lo shift cognitivo che questa epoca di cambiamenti epocali e collasso ambientale impone all’umanità e 2) la produzione di un nuovo immaginario come azione cardine per uscire dal pantano in cui sguazzano immobilismo, negazionismo e conformismo.

Non mi dilungo, dato che questo libro è il tema numero 002 che ho scelto per il nuovo percorso della Linea dopo l’album black metal dei Wormwood, Arkivet (qui il post riassuntivo). Qui di seguito trovate un estratto dal libro: non è una delle 9 parole chiave, ma una sorta di introduzione nella quale l’autore fa il punto sulla parola Antropocene e sulle sfide epocali che abbiamo di fronte.

L’estratto

Pubblico questo estratto su gentile concessione dell’editore Piano B, che ringrazio.

Leslie P. Francis, in un saggio del 2018 intitolato Pandemics in the Era of the Anthropocene, aveva individuato e discusso tutte le criticità con cui Covid-19 ha finito per investire l’intero pianeta: erosione ambientale e questione animale come causa scatenante l’evento pandemico, cambiamento climatico, inquinamento e incremento demografico come esaltatori del contagio, prevenzione e management delle infezioni su scala planetaria e loro implicazioni per la giustizia distributiva. Era il 2018 ed era solo uno dei molti articoli “profetici” sull’argomento. Perché queste voci sono rimaste inascoltate? Il sistema produttivo è davvero refrattario a una scienza delle previsioni? O dobbiamo immaginare che sia proprio questo silenzio ermetico a favorire un’economia del disastro? E la «grande cecità» di cui parla Amitav Ghosh è una condizione ineluttabile? Esiste un metodo per reagire come individui e come specie? Ciò che dava ampiezza prospettica al saggio di Francis era il frame interpretativo: riconoscere che la pandemia è solo un evento collaterale in una catena articolata di collassi.

In breve, a monte di tutto, c’è l’Antropocene. Ma che cos’è veramente l’Antropocene? Parola amata e odiata, spesso fraintesa e snobbata dalle élite culturali, ancora oggi, dopo un decennio di discussioni e pubblicazioni ormai infestanti, non sappiamo bene come usarla. È una vexata quaestio tra i geologi? È una nuova cosmologia immaginifica? È uno shift antropologico in atto? È una bufala?

Se avessimo ascoltato chi lavora su base scientifica agli scenari di previsione ci saremmo forse risparmiati una catastrofe, ma Jared Diamond in Collasso ci aveva avvisati: Homo sapiens vede raramente lo tsunami in arrivo, una specie di cortina cognitiva cala sui suoi occhi e lo rende lento, impotente. Esiste una via di uscita? In realtà è sempre esistita: pensare per complessità. Labirinti. Iperoggetti. Big Data. Ma soprattutto attraverso un modello di previsione e gestione del dopo che metta nel giusto equilibrio analisi e immaginazione. Potremmo chiamarlo Metodo Antropocene, un modo di sintonizzarsi sul presente cercando paradigmi percettivi diversi e inventando esercizi cognitivi nuovi, per guardare nella nebbia che viene. Nove parole-chiave, qui, per cartografare la geografia del collasso che abbiamo scatenato.

L’opinione che la pandemia da Covid-19 sia stata solo un tentacolo della grande crisi antropocenica ha ormai preso piede. Ma chiedersi quali cambiamenti abbia portato e porterà una pandemia globale ai sistemi economico, sociale e culturale è un esercizio complesso a due velocità. Da un lato si può fare un ragionamento a senso, impressionistico, non separabile dal bisogno di formulare ipotesi mentre ancora si sta cercando di comprendere una realtà per molti aspetti impermeabile. Dall’altro possiamo impegnarci in un tentativo più serio, strutturato, scientifico, per formulare delle simulazioni di previsione, allestendo scenari predittivi in grado di offrire delle reali risposte e di inaugurare, dopo la fase interpretativa, una reale fase operativa. Dalla simulazione all’azione, insomma. Homo sapiens è una specie dotata di grande capacità di adattamento, sempre in equilibrio tra bisogno di immaginare il futuro e di elaborare scenari di vita alternativi. Ora, Covid-19 è il primo vero grande trauma collettivo dell’Antropocene, mille volte più potente nell’aggredire l’immaginario delle persone di quello che è stato ‒ ed è‒ il problema climatico. In questo senso il primo effetto duraturo della pandemia sarà forse quello di preparare l’umanità al prossimo step cognitivo, l’accettazione del collasso ambientale come problema numero uno della specie. Il crollo di molte strutture economiche, sociali, politiche e culturali dovuto alla crisi climatica genererà dolore, a volte caos, ma stimolerà anche qualcosa di diverso dalle solite reazioni rettiliane, irrazionali e oscurantiste. Molta gente, privata del giocattolo del benessere, diventerà più vigile sui propri diritti fondamentali, e sarà forse più disposta a esigerne il rispetto. Consapevolezza nel buio, insomma, e un rilancio esponenziale delle capacità immaginative come tecnica di sopravvivenza. Detto più terra-terra, un ingresso a tuffo nella realtà, dopo la bolla illusoria di eterna pace sociale e climatica iniziata nel Dopoguerra, gonfiata dal Boom economico e portata avanti fino al momento presente dalle politiche neoliberiste su scala globale.

L’ingresso nell’età adulta, dopo questa lunga fanciullezza dorata, deve passare attraverso la consapevolezza del fatto che proprio il neoliberismo è al cuore della crisi globale, perché l’ha generata, l’ha amplificata e, senza alcun pudore di fronte alla morte di fasce fragili della popolazione, ne sta ritardando la soluzione in nome dell’imperativo economico. Questo perché l’erosione dei diritti elementari alla casa, al lavoro e alla salute ha funzionato per decenni nella grande menzogna del «va tutto bene», «noi non ci fermiamo», «la produzione a ogni costo», «dobbiamo ripartire».

Adesso che i costi di questo sistema inumano sono sotto gli occhi di tutti e l’evidenza dei fatti svergogna la propaganda populista, sovranista, capitalista, sarà forse più difficile parlare in futuro di progresso e benessere come motori ideali della ripresa. Usciti dal guado, l’orgia di recupero nel tentativo di tamponare il vuoto lasciato dalle enormi ricchezze vaporizzate dalla crisi pre- e post-pandemica, genererà un effetto domino con abissi di recessione difficili da immaginare. Ma se alcuni sciacalli politici già fanno e faranno leva sulla nuova miseria per erodere i principi democratici, il malessere rafforzerà anche il dubbio in quella parte della popolazione che, addormentata, si è già lasciata irretire da qualche tribuno della plebe. Economia in crisi profonda e comunicazione da remoto trasformeranno in modo radicale il discorso politico, rendendolo più complesso, più articolato, più bisognoso di reali competenze.

In questo non v’è dubbio che anche la cultura umanistica potrà e dovrà assumere un ruolo guida nell’attraversamento delle molte crisi che ci attendono. Il nuovo problema, invece, è quello che abbiamo cominciato a conoscere sotto il nome di “negazionismo”, climatico, pandemico, antropocenico. Se esistono persone in grado di negare una pandemia pur alla luce dei fatti, è facile immaginare che un negazionismo ancor più cieco investirà i discorsi che avranno al centro la parola “Antropocene”, un iperoggetto così difficile da capire e manipolare, certamente più facile da ignorare o negare che da avvicinare con strumenti critici, antropologici, immaginativi. Forse molte persone non vorranno guardare in faccia il dinosauro nero che è apparso quasi all’improvviso nel salotto di casa, ma avranno comunque bisogno di strumenti cognitivi per riflettere sulla nuova realtà, e non in termini di svago e successo, ma di sopravvivenza. Se dunque l’umanesimo passerà attraverso una nuova consapevolezza del collasso forse avrà qualcosa da dire prima che sia tardi. Altrimenti avremo perso un’ultima occasione per pensare il nostro futuro in termini umani e non solo produttivi, e il Metodo Antropocene sarà come un’aspirina di fronte a un arto amputato.

Se ad alcuni di voi interessa una recensione di Geografie del collasso, consiglio quella firmata da Claudia Boscolo sulla rivista online Ibridamenti: la trovate qui.

Immagine di copertina: foto di Alice12 da Pixabay.

2 risposte a “Un estratto da “Geografie del Collasso” di Matteo Meschiari”

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