Memorie dal sottobosco: 3 domande a Tommaso Lisa

Il libro

Nel presentare il libro di Tommaso Lisa, Memorie dal sottobosco (pubblicato da Exòrma Edizioni) sarò breve, perché le sue risposte alle mie domande, e soprattutto il suo libro, meritano più di qualsiasi introduzione io possa scrivere. È un libro difficilmente inquadrabile: in alcuni punti pare un saggio scientifico dedicato agli insetti, ai funghi e agli habitat in cui questi esseri vivono, ma non è soltanto questo. È un diario personale, una serie di immagini e impressioni nate dal rapporto fra una persona e un insetto, il Diaperis boleti, un tenebrionide che si nutre di funghi. Ma è anche un libro che regala spunti originali sulla scrittura, e sulla scrittura naturalistica in particolare. Insomma, come avrete capito è un volume ibrido, originale e profondo.

Le 3 domande

1) Non appena ho iniziato il libro mi sono reso conto della sua ricchezza lessicale e di immagini. Inoltre, non hai alcuna paura di utilizzare termini tecnici sconosciuti ai più, che io spesso trovo bellissimi e suggestivi (peridio, palpi, micangi, antennomeri, vesce…). Mi è subito venuto in mente questo passaggio di Alexander von Humboldt da Quadri della natura (Codice).

«Tutto ciò che rimanda fedelmente alla natura rende più vivo il linguaggio degli uomini, sia che si vogliano raffigurare le impressioni sensibili ricavate dal mondo esterno oppure i pensieri che si agitano nel profondo e i più intimi sentimenti».

Che ne pensi? Credi che scrivere di natura, e del piccolo e brulicante in particolare, arricchisca il modo in cui esprimiamo la nostra umanità e raccontiamo ciò che di muove dentro di noi? Se sì (e immagino che la tua risposta sarà sì), perché?

Grazie per le domande dirette, alle quali risponderò in maniera “laterale”. Potrei innanzitutto dire che ogni domanda sul testo è inutile, perché il libro (ogni libro costruito “ad arte”) ha già in sé, nella sua struttura potenziale, le risposte a tutte le possibili domande sul suo conto.

Inizio invece con un’allusione al pensiero del primo Ludwig Wittgenstein: Fuori dal linguaggio c’è il silenzio. Oppure molti altri linguaggi, infiniti, che tramano la materia, ma che sono altri rispetto a quello che, ogni giorno, usiamo per raccontare noi stessi, la propria identità. Fatto sta che un testo parla una sola lingua, in tal caso l’italiano. Una lingua che però si muove nel tempo (questa lingua che parlo adesso non è esattamente la stessa che ho usato per scrivere Memorie dal sottobosco, ed è per tale motivo che adesso uso uno stile quanto più colloquiale possibile, proprio per differenziarmi dallo stile scritto del libro). C’è un movimento della lingua, un’evoluzione costante.

Partiamo dunque dall’origine: come si usa dire, io almeno me lo sento dire, “vengo dalla poesia”, come se si trattasse di una casa (vuota forse, nel mio caso). Da ragazzo scrivevo poesie, e ne scrivo tutt’oggi, ma non tanto per esprimere sentimenti (mi sono sentito abbastanza “anaffettivo”, avaro di emozioni “poetiche” nel senso stretto del termine), ma per misurarmi con le parole su un piano lessicale, retorico. Uno scontro fisico, quasi agonistico. C’erano le parole. E le cose. E, accidenti, non combaciavano! Sono sempre stato in conflitto con questa cosa, anche prima di scoprire come nei secoli la filosofia abbia affrontato il problema. Il rapporto col linguaggio è tutto. Ma sono un grande ignorante, beninteso, è evidente – mia moglie (che è insegnante) si stupisce di come io usi la lingua per consuetudine, senza conoscerla dettagliatamente nelle strutture (ecco, in tal senso siamo quotidianamente “parlati” dal linguaggio, andiamo avanti per inerzia, guidati dalle parole) – se avessi avuto una competenza tecnica, avrei fatto il linguista o il grammatico.

Si può dire sia semplicemente una forma di amore, di sensuale e sensibile attrazione per parole – anche di uso quotidiano – che mi chiamano e si chiamano, come ad esempio la differenza fra orlato e zigrinato, il modo in cui si attirano fusione e fresatura… M’affascinano le etimologie. E ancora di più le paraetimologie, i falsi amici, gli errori. Adoro gli errori, perché è lì che “individuo” lo scarto evolutivo. L’inceppamento che provoca attrito, la scintilla che spinge a pensare. Mi piace osservare come le parole si muovano nel tempo per significare cose sempre diverse. Quindi, per farle significare in modo efficace, bisogna portarle, guidarle filologicamente, in un perimetro, quello del testo, in un sistema specifico di riferimenti nel quale assumano un valore, un significato appunto. Ad esempio dentro un libro che parli di un insetto, anzi di un Coleottero, anzi del Diaperis boleti.

Mi hanno affascinato i linguaggi tecnici e trovo spesso banale la divulgazione. Quella che rende “volgare” il discorso. A mio avviso – sempre secondo me, beninteso – si dovrebbe divulgare contestualizzando, spiegando, accompagnando il lettore fin dentro il perimetro della specificità. Non abbassando le parole. Se uno scienziato ha dato un certo nome a un dettaglio anatomico c’è un perché, un motivo che deve essere messo in situazione, non riassunto e sostituito con un sinonimo più semplice (anche per questo – ma è un altro tema, assai più profondo – ho sempre guardato con sospetto la metafora poetica, il simbolismo e l’allegoria: un linguaggio tecnico porta già con sé il fascino necessario a creare un altro mondo, senza alcun procedimento di sostituzione o fittizia equivalenza).

Da ragazzino aprivo i manuali di entomologia e rimanevo affascinato dalle descrizioni degli insetti – assolutamente incantato – e dei luoghi dove venivano trovati, dalla loro vita. Venivo letteralmente preso per incantamento. Lì, in quei manuali ottocenteschi, che poi sono arrivati a tutto il Novecento, l’autore-scienziato, l’entomologo, compie uno sforzo titanico per rappresentare con meno parole possibili, le più efficaci possibili, dense di senso, la descrizione con esattezza scientifica. Il mio sogno era tessere i frammenti di quel grumo di dense parole. Abitare quel testo fatto di specificità. Quindi descrivere con la maggiore accortezza possibile il piccolo e brulicante mondo che anima le nostre esperienze è l’unica ricchezza, perché siamo fatti di linguaggio e con questo ci raccontiamo, raccontiamo la nostra storia, costruiamo il nostro io, letteralmente, sul niente.

2) Io adoro i coleotteri, ma francamente faccio molta fatica a capire e spiegare il motivo del fascino che esercitano su di me. Nel testo utilizzi diverse metafore e similitudini quando scrivi dei Tenebrionidi e di altre famiglie. Alcune volte sono «nobili vampiri», altre delle specie di metallari con «abbigliamento dark», perfino dei «diavoli mascherati». Che posto occupano i coleotteri nel tuo immaginario? Che ruoli incarnano? Perché, secondo te, sono in grado di essere delle porte capaci di condurci in un mondo altro, specialmente se siamo bambin* o ragazz*?

C’è un imprinting (nel libro lo dico esplicitamente): rimaniamo “impressionati” da certe forme. Per alcuni individui sono insetti, per altri i fiori, le auto, i piedi, la pasta, le pietre (potrei proseguire con una “enumerazione caotica”, procedimento retorico che adoro). Questa impressione occasionale, epifanica, se profonda e ben coltivata, può approdare, ovviamente, al collezionismo, alla visione sistematica, sfociando infine nel feticismo, in varie forme ossessivo compulsive che sono alla base e fondamento della civiltà (direi “occidentale” in particolar modo, ma in senso generale di ogni religione – coi riti – e della scienza, con l’applicazione del metodo). Non bisogna far altro che “fissarsi” su un’immagine e andare a fondo…

Risiede forse qui il senso di ogni “vocazione”. Giovanna d’Arco sentiva le voci, mentre a me è stato il Diaperis a parlare. Quindi: “perché una cosa piuttosto che un’altra?”. Penso che nel campo di variabili messo in gioco dalle labili percezioni umane, possiamo – in anni formativi o in momenti significativi delle nostre esistenze – venir “segnati” da qualcosa in particolare, da questa “chiamata”. Tanto più se questo “qualcosa”, come il Diaperis, porta in sé impresso sulle elitre il segno della sua “memorabilità”. Un colore, un odore, una forma (altro che pubblicità e marketing! Per quanto i diabolici retori vessilliferi della neuro-vendita possano impegnarsi, c’è un altrove più profondo, un inconscio recondito – intimo, direi – nel quale le emozioni s’incistano, inviolabile dal discorso comune, che non può essere mercificato, tanto è irriducibile e primigenio).

Scoprire le tracce dell’imprinting e capirne le modalità evolutive è piuttosto semplice. Il gioco è elementare, come osservare un cartello stradale: sai subito cosa significa. A me è accaduto con gli insetti. Sarei a dir poco sciocco se affermassi che accade solo con quelli, rivendicando un primato, seppure in maniera soggettiva. È invece una forma di educazione sensoriale e sentimentale che procede casualmente. Un processo conoscitivo che si potrebbe attivare anche con le conchiglie o i microchip. “Sfortunatamente” (in realtà non c’è un rammarico, ma un sollievo in questa constatazione) le giornate sono composte di un numero finito di tempo, e l’esistenza ha un limite spazio temporale, nonostante la fascinazione del web illudano a una compresenza quasi divina, oracolare. Nei fatti quotidiani finisce per forza di cose per crearsi una gerarchia di interessi, una strada, una e una sola – specchio dei nostri percorsi neurali forse – in base alla consuetudine, a meccanismi di fissazione e scavo. Potrebbero piacermi anche le concrezioni di carbonato di calcio o le speculazioni finanziarie sui fondi di fondi dei mercati emergenti, ma per consuetudine, per un “consolidato affetto” continuo a sentirmi attratto dai Coleotteri.

Inoltre c’è da dire – e ci tengo a sottolineare questo tratto, forse non del tutto vero – che scrivo prevalentemente in virtù della passione per i Coleotteri. Scrivo per loro e di loro. Il cardine creativo, il desiderio intorno cui ruota l’agire, è l’oggetto entomologico, non il processo scrittorio in sé. Questo è un fatto che stimo come assai importante: non mi interessa, se non marginalmente, l’aspetto prettamente “letterario” del discorso… Vorrei illudermi di usare la letteratura (e i suoi stratagemmi) non per creare altra letteratura, ma per celebrare gli insetti, il mio rapporto intimo (direi quasi spirituale) con loro.

Infine, il libro è un continuo tentativo di cercare di sabotare gli automatismi del pensiero attraverso lo straniamento. Spero di essere stato in grado di elaborare una scrittura che riesca ad essere perturbante, a non rassicurare il lettore, piuttosto a inquietarlo, instillare il dubbio a ogni passo. Credo sia questo il motivo che fa sembrare così “strano” (weird) il libro. Nella mia vita quotidiana tendo ad esercitare un rapporto irenico e pacifico, ma è temprato da questo dissidio. C’è quindi anche un forte desiderio di mettermi sempre in discussione se non proprio di auto-sabotarsi: “io non sono solo questo insetto che mi rappresenta”, sono anche altro, mi occupo e interesso anche di molto altro. Nella dialettica cacciato-cacciatore, una continua fuga, uno slittamento del calco. Perché è bello ampliare il confine, vedere una prospettiva diversa. Talvolta, rapsodicamente, m’interesso di licheni, di funghi, perché tutto è collegato… Ecco la nobile arte della divagazione, che contraddistingue il libero di spirito! L’unica, per quanto ne so, che consente l’emozionante illusione di avere una visione d’insieme dell’esistenza.

Diaperis boleti MHNT Fronton

3) Ad un certo punto, con rassegnazione e (credo) una punta di rabbia, scrivi: «Ciò che non è utile o è dannoso o non ha valore». Si potrebbero spendere fiumi di inchiostro su questa frase, ma voglio chiederti quanto segue. Dopo aver scritto un volume che indaga la zona oscura che si è venuta a creare nella relazione fra Tommaso Lisa e il Diaperis boleti, come ti poni nei confronti di tutti quei casi in cui l’umanità assume una posizione di dominio sull’altro non umano per soggiogarlo e sfruttarlo?

In ogni frangente bisogna circostanziare la risposta, riportare la citazione nel contesto… Mi affascinano i Coleotteri anche (o proprio) perché non appaiono utili. L’utilità è una delle bestie nere dello scrittore reazionario tedesco Ernst Jünger, tanto che possiamo dire che questi insetti dalle forme strane e a volte inquietanti, sono per lui i veri dandy del nostro pianeta dominato dalla Tecnica.

Mi chiedono talvolta – ma me lo chiedo principalmente io, con maggior forza, ogni giorno – “ma perché scrivi di queste cose astruse, ricercando insetti che tutti ignorano, comparandoli con testi di filosofia in voli pindarici: ma lascia perdere, vai a lavorare, è tempo perso!”. Ossia, detto altrimenti, “obbedisci all’utile secondo il dogma collettivo”. Smetti di “errare” nei campi incogniti e, con una buona mappa già tracciata da altri, segui il sentiero, la lista dei doveri così come ti viene prescritta dal senso comune. Se esteriormente posso accettare di uniformarmi all’etica nicciana del cammello, esigo però che i miei spazi interiori siano liberi. La mia scrittura è una sorta di sacrificio di energie vitali in lode di ciò che è apparentemente improduttivo, ma autentico. Tanto più che questo tipo di lavoro “non alienato”, come nel noto passo di Marx su Milton e il baco da seta, sarebbe il valore su cui si fondare l’utopica società di uomini liberi.

Spesso l’entomologo si occupa solo delle specie utili al sistema produttivo industriale, o indaga come debellare quelle nocive. Se esiste una professione di entomologo, l’entomologo viene pagato per tale ricerca. Questa, a mio avviso, non è entomologia, ma economia applicata all’entomologia. I ragionieri, i contabili, i funzionari che emergono e prendono piede in ogni campo del sapere, rendendo florida la monocultura ma desertificano la fantasia… sono utili, beninteso, nel senso stretto del termine: la struttura della conoscenza si fonda su di loro, sui loro rendiconti; ed è attraverso la meccanica ripetizione di schemi – tassonomici, di analisi del Dna, di bilancio aziendale – che si giunge alla noia, ma talvolta anche all’ascessi, all’illuminazione. Col “contabile” – sia esso coltivatore o allevatore – il cacciatore-raccoglitore non ha in genere un buon rapporto. Questo perché il movimento di comprensione dell’altro, nel caso del contabile, non è animato da un’apertura, da una domanda di conoscenza disinteressata, ma presuppone che la ricerca sia finalizzata, direi proprio soggiogata, al bene materiale dell’uomo. L’interesse è indirizzato non verso la conoscenza teoretica, ma all’uso vile, grossolano.

Da una parte c’è quindi l’idea della caccia e la caccia all’idea, l’apparizione dell’epifania, il selvatico. Dall’altra la coltivazione stanziale e paziente di un metodo. In quest’ultimo caso si più dire che quando si indaga con un preciso e preordinato scopo utile personale non c’è apertura verso l’altro, ma violazione, addomesticazione. Fino al soggiogamento in schiavitù. Perciò con rabbia e rassegnazione devo constatare che la ricerca è quasi sempre piegata (finanziata) alla logica dell’utile mercantile e non del sapere, del dominio e non della conoscenza. Ammesso che esista un sapere, una curiosità, scissa dall’utile. È un problema di sottigliezza. Si può piegare la curiosità a benevoli usi, come produrre più miele o più olio d’oliva, con lo scopo di sterminare i cattivi insetti, oppure lasciare la curiosità intellettuale libera di capire come mai la natura assuma certe forme. Farlo in maniera disinteressata, senza avere per forza come primo scopo una ricaduta economica, monetizzabile dall’industria. Fino a scoprire – paradossalmente – che la natura assume certe mirabili forme proprio per un fine concreto, uno scopo utile, un adattamento pratico per sopravvivere, anche nel caso della coda del pavone. Ecco che le cose si rivoltano contro, nel loro contrario, in una beffarda e assurda dialettica!  

Come macchina creatrice di senso il pensiero umano riduce inevitabilmente i fenomeni a segni che devono significare in una catena di relazioni, con una gerarchia e una utilità. Grossolanamente, per l’economia, ciò che non genera un utile misurabile e spendibile (in termini marxiani, “alienato”) semplicemente non esiste. Un’esistenza, in tale prospettiva economicista, significa solo se, una volta misurata, parametrata, diventa statistica e genera un discorso monetizzabile. Io avverto questo con sofferenza, non dico che sia il male, dico solo che mi fa soffrire. Tutto può diventare utile, se misurato, parametrato, reso statistica, algoritmo e parte di un discorso di misurazioni. Condiviso. È un meccanismo che divora tutto, che su ogni cosa mette prima il nome e poi il prezzo. E beninteso, non è in sé negativo, ha un valore intrinseco, ci ha portato a essere questa civiltà, migliorando effettivamente la nostra esistenza quotidiana, ma non appaga la sete di conoscenza ed elude la questione della meraviglia, dell’incantamento della sorgente del senso. Individui alienati sono da sempre stati sostituibili con delle macchine, oggi ragione di più con robot o intelligenze artificiali.

Nell’individuo, anche il più razionale e freddo calcolatore, a differenza dell’intelligenza artificiale, agisce invece una spinta conoscitiva diversa, se non opposta, che è quella dell’emozione, del sentimento, della percezione non mediata dalla razionalità e dalla misura. Il libro si muove costantemente tra queste due polarità, che non sono per forza positive o negative, possono anche scambiarsi di ruolo, e tra queste polarità la scrittura cerca un equilibrio. Letteralmente: una “messa a fuoco”, come col microscopio. Se un insetto esiste, vuol dire che in relazione al contesto che lo ha portato ad emergere ha un significato, in sé e in relazione all’ambiente non umano. Come specie Sapiens siamo invece portati naturalmente a reputare bello ciò che è utile, l’ape – che produce il miele – rispetto alla perfida vespa. È questa sovrapposizione brutale dell’economia umana sull’economia del sistema non umano a ferirmi, quando il valore imposto dai capi dei Sapiens si sostituisce e soppianta l’economia dell’ecosistema non umano, autoaffermandosi per principio come superiore.

Se qualcosa esiste, esiste perché ha senso in relazione agli altri. D’altro canto, diametralmente all’opposto, un valore senza utilità allude a una dimensione del discorso prevalentemente estetica, se non integralmente metafisica. Secondo quell’indirizzo filosofico che passa sotto il nome di Ontologia Orientata agli Oggetti, le cose – oppure gli insetti, ogni singolo insetto – hanno valore in sé, a prescindere dalle relazioni. Forse infatti esiste anche un valore assoluto nelle cose in sé, ed è questo che, impossibile da indagare razionalmente, mi affascina. Questo insetto. La sua monadica essenza. Anche questa metafisica merita di essere indagata e può essere vera, ma solo in parte. Paradossalmente, tutto è relativo, anche questa affermazione… Come mi pongo quindi nei confronti di tutti quei casi in cui l’umanità assume una posizione di dominio sull’altro non umano per soggiogarlo e sfruttarlo? Emotivamente con un misto di insofferenza e rassegnazione, giacché preda e cacciatore finiscono per coincidere e nulla è di nuovo sotto il sole. Mitigo però questo nichilismo con lo sguardo al contempo curioso e distaccato dell’entomologo il quale cerca con passione e amore, con entusiasmo e metodo – con tutti gli strumenti possibili della ragione – di essere più consapevole delle relazioni, di aprirsi alla comprensione delle dinamiche di cosa sta succedendo in quest’inestricabile groviglio.

Il link finale

I post su La Linea Laterale si chiudono sempre con un link. Ti va di segnalare un link utile o che è stato importante per te per la scrittura di questo libro? Può portare a qualsiasi cosa (immagini, video, testi, siti…) e, se vuoi, puoi spiegare brevemente perché lo hai scelto.

FORUM ENTOMOLOGI ITALIANI (FEI)

Il link che consiglio è quello al Forum degli Entomologi Italiani, ossia il FEI, usato oggigiorno prevalentemente per le determinazioni ma autentica fonte di dati, informazioni e problemi anche nella sezione di libero accesso senza registrazione. Sulla chat del forum, in un formato ormai già obsoleto, ho scritto e condiviso tre anni fa i primi spunti di riflessione entomologica confrontandomi con studiosi di ogni settore e persone delle estrazioni più disparate che mi hanno fatto crescere e condotto fin qui.

Una replica a “Memorie dal sottobosco: 3 domande a Tommaso Lisa”

  1. […] già ospitato Tommaso Lisa sulle pagine della Linea (qui). Se lo conoscete come autore di sicuro sapete quanto sia bravo con le parole e quanto adori gli […]

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