“L’impotenza del mostro”, un saggio di Antonio Caronia

“Dal cyborg al postumano”

Raramente mi è capitato di leggere una raccolta di saggi in così poco tempo. Ho letteralmente divorato Dal cyborg al postumano. Biopolitica del corpo artificiale di Antonio Caronia, pubblicato recentemente da Meltemi (la curatela è di Loretta Borrelli e Fabio Malagnini). Come scrive Alberto Abruzzese nella prefazione del volume, Caronia «è venuto a mancare proprio quando tutto ciò che aveva anticipato per noi, narrato e sceneggiato […] si sarebbe pienamente realizzato, condensato». I suoi saggi raccolti in questo volume, che coprono un arco temporale lungo trent’anni, analizzano infatti gli aspetti più radicali, visionari e critici delle opere di numerosi autori che hanno saputo raccontare in modo acuto e coinvolgente il corpo colonizzato dalla tecnologia, l’avvento del digitale, la crisi eco-economica globale. In questo volume c’è spazio per tutti, da Ballard a Dick, da Gibson a Haraway, da Le Guin a Foucault, e per un gran numero di spunti dedicati a filosofi, artisti, politici, intellettuali e, ovviamente, scrittori.

Antonio Caronia (fonte: Wikipedia)

Il mostro

Negli scritti di Caronia c’è una figura ricorrente. È il cyborg, «un mostro da capitalismo maturo», come l’autore lo definisce nel saggio che La Linea Laterale oggi pubblica per gentile concessione di Meltemi Editore: L’impotenza del mostro (2001), comparso in origine nel volume Desiderio del mostro (Manifestolibri, 2001). Ho scelto il saggio sul mostro perché in queste settimane ho letto anche il bel libro di Matteo Meschiari, Antropocene fantastico, in arrivo per Armillaria. Credo che questi due libri riescano a dialogare in modo assai proficuo, componendo una galassia di suggestioni mostruose e inquietanti, utili in questi tempi di crisi globale.

Buona lettura.

L’impotenza del mostro

di Antonio Caronia

Pubblichiamo questo saggio per gentile concessione di Meltemi Editore.

A poco a poco, il mostro è destinato a scomparire dal nostro orizzonte cognitivo, affettivo, immaginario. La sua apoteosi si è avuta nella stagione piena della modernità, dalla letteratura neogotica ai film horror del Novecento, quando lo sguardo del dominio aveva ancora bisogno dello strumento della “misura” per normare lo spazio sociale, e lo smisurato che gli sfuggiva doveva rifugiarsi in una dimensione crepuscolare, al confine tra il visibile e l’invisibile, per non turbare il concitato ma placido flusso dei pedoni, delle carrozze, delle automobili, sui grand boulevard haussmanniani e sulle avenues newyorkesi. Oggi che il capitale ha vinto frantumandosi e ricomponendosi, parcellizzandosi e ricostruendosi frattalmente a partire da molecole di sociale, anche le più insospettabili, oggi che il processo di valorizzazione non ha più bisogno di luoghi specifici in cui svolgersi ma dilaga in tutta la società, l’ordine sociale non ha più bisogno di una misura imposta dall’esterno, di un’articolazione specifica dell’immaginario legata all’esclusione, perché l’esclusione è una pratica introiettata e automaticamente applicata dalla generalità, dalla medietà della popolazione. Il mostro oggi non è visibile non perché debba rendersi invisibile come il mostro classico, come la creatura di Frankenstein, ma perché l’occhio che dovrebbe vederlo ha attivato meccanismi molto sofisticati di assuefazione. Tutti vediamo in televisione gli immigrati sporchi e inebetiti che sbarcano sulle nostre coste, ma nessuno vede via Corelli. Non che il mostro oggi non possa più ribellarsi, ma può farlo solo se al contempo costruisce le possibilità stesse del suo rendersi soggetto: cosa che la creatura di Frankenstein non aveva bisogno di fare, perché lo costituiva come tale già la sua origine blasfema e lo sguardo inorridito del bravo cittadino.

Il mostro ha avuto, nella storia dell’umanità, una funzione cognitiva. Così la descrive Claude Kappler nel suo Le monstre. Pouvoir de l’imposture (PUF, Paris, 1980, pp. 264-265):

Il mondo viene percepito come un avversario: bisogna difendersene e, per mettere a punto una difesa efficace, bisogna imparare a conoscerlo. È nel mostro che vanno a concentrarsi tutte le forze ostili: queste forze che vengono da fonti diverse inviano ciascuna un geroglifico su di un unico schermo, un punto di convergenza: i geroglifici, combinati in questo punto, costituiscono il mostro. Il mostro è dunque la somma di una proiezione simultanea di raggi convergenti: è come il prodotto di una tempesta cosmica che si sia abbattuta in un punto dato. Il mostro, combinando degli elementi a prima vista eterogenei, rappresenta una cifratura di forze ostili. Lo si può pertanto sottoporre a diverse manipolazioni (è divenuto un oggetto sacro) e, in particolare, alla decifrazione, che è una maniera di comprendere, di dominare, di organizzare in forma di elementi maneggevoli delle forze che nella loro manifestazione bruta non lo erano. Il mostro è dunque una maschera nella misura in cui riproduce i tratti dell’avversario (è una proiezione): questa maschera funziona come rivelatore, come attualizzazione, ma anche come travestimento. È schermo nel doppio senso del termine: serve a rivelare tanto quanto a dissimulare. Funziona come il sogno, che è insieme detentore di una verità e causa del suo occultamento.

Questa è esattamente la situazione della creatura di Frankenstein, dell’uomo-lupo, del mostro della laguna nera, dei freaks di Tod Browning, di una delle tipologie, cioè, del mostro moderno: mostri dolenti, mutanti pseudo-umani in cui l’uomo “normale” si specchia per ritrarsene inorridito, ma che gli segnalano l’esistenza terribile dell’Altro. Anche questo mostro, però, si specchia in noi, e solo così può scoprire una verità di se stesso. Egli, per esempio, spesso soffre per il suo esilio dalla società perché è un essere che aspira al sociale, ma è proprio questa sua aspirazione a bloccarlo, perché il suo essere potenzialmente sociale fa sì che egli comprenda, quasi giustifichi, la fondatezza della sua esclusione: se ne lamenta e soffre, ma sa che non sarà mai nient’altro che la scimmia dell’uomo. E perciò può riequilibrare la situazione solo con un gesto di ribellione, che realizzi una copia malsana e blasfema di quella società da cui è escluso: ciò che fa la creatura chiedendo a Frankenstein la sua sposa, o che fanno i freaks di Browning per tutto il film. Ecco il carattere “sovversivo” del mostro ribadito in tanti studi sull’immaginario del Novecento, e da ultimo da Fabio Giovannini nel suo Mostri (Castelvecchi, 1999). Anche l’altra grande tipologia del mostro novecentesco può essere sovversiva, ma in modo diverso: i Grandi Anziani di Lovecraft, Godzilla e tutta la schiera dei mostri antidiluviani, giapponesi e occidentali, usciti dagli abissi marini e dalle “terre dimenticate dal tempo”, gli alieni della fantascienza, non rappresentano una variante appestata dell’umanità, ma un’alternativa radicale, ontologica all’uomo e alla sua società, a cui non possono portare che rovina e distruzione. E peggio ancora quando questi estranei totali possono mascherarsi da umani e infiltrare dall’interno la società (L’invasione degli ultracorpi). Una lettura politica di questa seconda tipologia del mostro richiede per forza di cose maggiori mediazioni, ed è comunque estremamente difficile identificarsi in essi per chi ricerchi una via d’uscita “umana” dalla società capitalista.

Ma tutto questo, lo ripeto, non è più possibile. I tempi del mostro-maschera, del mostro- schermo che segnala i limiti e i paradossi della cittadinanza sono finiti. In fondo, nella società fordista il mostro poteva adempiere a quella funzione perché non era una forza produttiva: il corpo del mostro-mutante era fragile e instabile, non aveva la coordinazione motoria per essere messo a contatto con le macchine, e quindi non poteva essere messo al lavoro nella catena di montaggio (pensate al passo incerto della creatura nel Frankenstein di James Whale, pensate alla pesantezza alla goffaggine e alla dolente fragilità dell’Elephant Man di David Lynch). La massa è composta di elementi in qualche maniera simili, confrontabili, omogenei, che possono riscoprire la propria individualità solo con una “presa di coscienza” che li porta a unirsi non più sulla base del legame sociale già costituito, egemonizzato dal capitale, ma sulla base di una scomposizione volontaria di quel legame e di una ricomposizione altrettanto volontaria. Di questo processo il mostro della modernità è incapace, perché il suo corpo mutante lo marca col segno di una irriducibile singolarità: è per questa sua alterità che egli, nell’immaginario, può focalizzare e simbolizzare in maniera deviata ma immediata i processi di formazione di una alternativa, e questo lo fa tenendo insieme, in qualche modo, l’emozione inorridita del borghese e l’attrazione ambigua e affascinata del proletario e dell’intellettuale ribelli che “fanno il tifo” per lui. Ma non c’è più spazio per l’alterità in seno alla moltitudine. Nel momento in cui il capitale globale è capace di estrarre valore anche da una mostruosità sino a ieri “improduttiva”, la mostruosità perde la sua connotazione “alternativa”. E anche i punk a bestia, nella misura in cui si limitano a essere un elemento decorativo ancorché fastidioso, sono tollerati e hanno il loro posto nella metropoli postfordista.

C’è una figura di “mostro” che, anche nel Novecento, sfugge a questo destino di improduttività, e che presenta una situazione più ambigua fin dalla sua prima comparsa, nella fantascienza degli anni Dieci e Venti, ed è quella del cyborg. Il cyborg è un personaggio dell’immaginario che segnala un processo reale, un mutamento nel rapporto fra uomo e tecnologia, il mutamento per cui la tecnologia, da protesi riconoscibile come tale e separata dall’uomo, si fa parte del suo corpo, e contemporaneamente, molto più di prima, paesaggio sociale. Il cyborg funziona secondo meccanismi diversi dal mostro “naturalistico” di ogni tipo. Certo, anche in esso sopravvivono atteggiamenti del tipo “ci-sono-cose-che-l’uomo-non-dovrebbe-sapere”, che è quello che Mary Shelley mise alla base del suo Frankenstein (basti pensare a film come Il cervello di Donovan o Il colosso di New York): ma queste sono sopravvivenze di immaginari precedenti, perché la logica immanente al cyborg è diversa. La prossimità, sino alla fusione, che esso realizza fra corpo umano e macchina ne fa uno strumento produttivo per eccellenza: confrontate la furia cieca, distruttiva, passionale, del mostro di Frankenstein o di Godzilla, con l’implacabile, fredda, programmata produttività di morte dei vari Terminator. Il cyborg è quindi un mostro da capitalismo maturo, è in qualche maniera un orizzonte ineluttabile dell’umanità: e quindi perde il suo carattere mostruoso ogni giorno che passa. Le modalità con cui esso segnala i possibili processi di alterità sono quindi opposte a quelle del mostro classico, naturalistico. Come nella visione di Donna Haraway, queste modalità sono l’ibridazione fra i linguaggi, l’ironia, l’estraneità alle pretese di purezza, la negazione di ogni mito dell’origine. Interno ai mutamenti postfordisti, anzi esaltato da essi, il cyborg può addirittura segnalare dei percorsi per sperimentare pratiche non omogenee ai nuovi circuiti del comando, elementi di un’alternativa radicata nei processi dell’oggi e non nostalgica dei miti di ieri.

Il link

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