“L’isola dei gusci” un racconto di Francesca Scotti

Il tempo delle tartarughe

L’ultima sera del Salone del Libro, cioè lunedì 23, ho presentato l’ultimo libro di Francesca Scotti alla libreria Trebisonda. L’evento, che chiudeva la serie di appuntamenti del SaloneOff presso la nota libreria torinese di San Salvario, è venuto davvero molto bene. Un pubblico non nutrito ma molto interessato e partecipe ha ascoltato l’autrice e il sottoscritto discorrere di animali e racconti, Giappone ed entomologia, sentimenti e titoli azzeccati.

La raccolta di racconti si intitola Il tempo delle tartarughe (e manco a farlo apposta lunedì 23 era la giornata mondiale delle tartarughe… lo abbiamo scoperto poco prima di iniziare) ed è stata pubblicata da Hacca Edizioni, casa editrice marchigiana che fa sempre le cose per bene, mettendoci una cura fuori del comune. Le copertine, per dire, sono sempre fantasmagoriche. Quella del libro di Francesca non fa eccezione. Guardate che roba.

Che tipo di raccolta è?

Si tratta di racconti piuttosto brevi e curatissimi. Francesca è un’autrice che ama avere il controllo sul materiale narrativo, e questo si nota dal fatto che nelle sue storie non ci sia mai una parola di troppo. Ci sono tanti animali (compresa una balena davvero splendida…), tanti silenzi, tanto Giappone (Francesca vive fra l’Italia e il Paese del Sol Levante) e dei colpi di scena davvero incredibili.

Dato che descrivere una raccolta di racconti è più difficile che raccontare un romanzo o un saggio, ho chiesto ad Hacca Edizioni il permesso di pubblicarne uno. Non ho scelto quello che in assoluto mi è piaciuto di più, ma quello che ho letto per primo, e che mi ha fatto entrare nel mondo dei racconti di Francesca Scotti. Ci sono due ragazzini, il mare, una conchiglia. A volte per una bella storia non serve altro… buona lettura.

Pubblico questo racconto, estratto dalla raccolta
Il tempo delle tartarughe (Hacca Edizioni, 2022)
con il permesso dell’editore, che ringrazio.

L’isola dei gusci

Avevamo la stessa età, dieci anni compiuti a maggio. Lui aveva capelli castani e denti non proprio dritti che però mi piacevano più dei miei, resi perfetti da un precoce apparecchio. Stava tutto il pomeriggio all’ombra dei pini marittimi a leggere fumetti spaginati, e tutta la mattina a raccogliere conchiglie in spiaggia. Quelle con il buco le infilava in un cordoncino di cuoio che attorcigliava al polso. Le conchiglie, secondo me, gli interessavano più dei fumetti, per questo avevo deciso di portarlo all’isola dei gusci.

I suoi genitori gli lasciavano fare quello che voleva e anche i miei erano tranquilli: se ne stavano sotto l’ombrellone, dormivano, facevano le parole crociate. Mia madre tornava nel bungalow a cucinare per pranzo e per cena, e anche la sua. Lui di bagni ne faceva uno verso le dieci e uno alle quattro, bagni lunghi, senza maschera. Io invece restavo dentro poco perché mi veniva subito freddo e unghie e labbra prendevano sfumature violette.

Sulla spiaggia non eravamo gli unici bambini. C’erano le gemelle bionde che portavano già il costume a due pezzi con i lustrini e i tre fratelli con le lentiggini, che avevano i gonfiabili più belli di sempre: una balena blu, una palla-anguria, un materassino-ghiacciolo. Ma non ero mai stata invitata a giocare con loro. Mi dispiaceva, ma poi, con l’arrivo del ragazzino con i denti un po’ storti, tutto era cambiato.

Quella mattina lui aveva nuotato a pelo d’acqua e poi a fondo e poi veloce verso il largo, senza paura. Io avevo fatto acrobazie che nessuno aveva visto.

«Se ti piacciono le conchiglie conosco un posto dove ce ne sono di belle», gli avevo detto restando accucciata fra le onde della riva.

Lui mi aveva guardato con gli occhi del sale, si era tolto un po’ di sabbia dalle mani e aveva scosso la testa mentre la risacca lo faceva oscillare.

Era un no. Ero delusa e immobile.

Poi si era stropicciato il naso. «Hai detto qualcosa?»

Era la prima volta che sentivo la sua voce.

«Se ti piacciono le conchiglie conosco un posto dove ce ne sono di belle», avevo ripetuto a voce più alta.

«Però dobbiamo andarci oggi pomeriggio perché domani parto».

Io ci andavo al mattino di solito, ma non era un problema. «Alle quattro, allora».

Avevo fatto merenda sorridendo sotto l’ombrellone.

L’isola dei gusci era un semplice gruppo di scogli che si raggiungeva superando un ammasso roccioso. Andando a caccia di grotte avevo scoperto un sottopassaggio naturale: non era necessario immergere la testa, bastava nuotare sotto la volta scavata dalle onde per sbucare dall’altra parte. L’ultima piccola fatica era arrampicarsi per qualche metro.

Lui mi aveva seguita senza chiedere nulla, aveva con sé uno zaino a sacchetto e indossava il suo solito costume blu con i laccetti bianchi. Non parlava, non sorrideva, però mi seguiva e questo per me era tutto.

Sull’isola dei gusci c’erano stelle marine, ricci, canestrelli, coni, murici, e nelle pozze naturali dove il mare entrava e usciva vivevano anemoni, pomodori di mare, piccoli pesci e crostacei.

«Se metti i piedi qui dentro i gamberetti ti pizzicano piano, è divertente», gli avevo detto.

Lui si era seduto di fianco a me e i nostri piedi si erano quasi toccati. I minuscoli crostacei facevano il solletico, stringevamo gli occhi e ci veniva da ridere – era stato in quel momento che mi ero accorta dei suoi denti.

Lui aveva raccolto molte conchiglie, sceglieva le stesse che avrei scelto io, ma ero più felice che fosse lui a tenerle. Avevamo inseguito alcuni paguri e un granchio, anche se non intendevamo certo catturarlo. Sott’acqua, attaccata alla roccia avevo visto una conchiglia chiara, a spirale, grande come la mia mano. Mi tuffai, gli avrei fatto un regalo. Vedevo il bianco sfocato contro l’oscurità della pietra, sentivo la spirale fredda e levigata sotto le dita. Tornai in superficie sollevando il mio trofeo. Lui si sporgeva dalla scogliera per prenderla, il suo braccio teso, il mio braccio teso, c’eravamo quasi. E poi qualcosa fuoriuscì dall’apertura e raggiunse il mio polso. Tentacoli, ventose, viscido. Gridai, aprii la mano, la agitai, sbattendola sulla superficie blu, movimenti convulsi. Un po’ di mare giù per la gola. Quando affondai il braccio la stretta si sciolse, scomparve, e io risalii svelta sull’isola graffiandomi un ginocchio. Il cuore mi batteva impazzito, rimbombava e avevo le gambe molli. Lui mi venne vicino: «È successo anche a me, sarà stato un piccolo polpo. Il cuore veloce e le gambe molli. Mi sono anche graffiato un braccio per la fretta di uscire».

Il sole stava cominciando a calare e di conchiglie ne avevamo raccolte molte. Avevo anche trovato un frammento di corallo che desideravo: ero certa che mi avrebbe reso magica.

«Andiamo?»

Scesi per prima, conoscevo gli appigli e gli appoggi, lui imitava ogni mio movimento rendendomi orgogliosa.

Quando fui in acqua mi voltai, pronta a superare la punta di roccia. Ma il passaggio non c’era più. Percorsi con lo sguardo la superficie nera, verde, compatta. Lui era al mio fianco, muoveva appena gambe e braccia per galleggiare. Guardai ancora e ancora. Ero spaventata.

«Si è alzata la marea», aveva detto lui tranquillo.

«E adesso?»

«Niente, dobbiamo aspettare».

«Quanto?»

«Finché la marea non si ritira di nuovo».

«E quando si ritira?»

«Fra qualche ora, credo. Torniamo su, fra un po’ si vedranno le stelle».

Mentre mi arrampicavo, pensavo alla tavola apparecchiata per cena e mi veniva da piangere.

«E i nostri genitori?» gli chiesi una volta tornati sull’isola.

«Si preoccuperanno, ma poi tutto andrà bene».

Era tranquillo e stava tranquillizzando anche me. Appoggiò la mano su una roccia asciutta. «Senti, è calda», disse. Ci sedemmo vicini, le schiene contro la pietra. Nel suo zainetto fradicio e pieno di conchiglie c’era un brick di succo di frutta alla pesca, era dolcissimo e lo finimmo mentre il sole spariva dietro l’orizzonte. Non avevo mai bevuto dalla stessa cannuccia con qualcuno che non fosse mia madre.

Comparve la prima stella.

«È bello», disse lui nel buio denso. «Il rumore delle onde sembra più forte quando non c’è la luce».

Era vero. Passammo un po’ di tempo così, come se guardassimo un funambolo sicuri che non sarebbe potuto cadere mai.

Invece, d’un tratto, arrivarono.

Gridavano i nostri nomi ma noi non volevamo sentirli: lui mi chiuse le orecchie con i palmi delle mani e io feci lo stesso con le sue. Mani calde, orecchie fredde. Ci trovarono subito, le torce puntate addosso luminose come stelle mobili, poi gli abbracci e i rimproveri sul gommone che ci riportava a riva. Tornati in campeggio, ci scambiammo soltanto uno sguardo, teso come la corda di quel funambolo. Lui partì il giorno dopo. Mi scesero due lacrime ma avevo una conchiglia stretta nella mano.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo:
search previous next tag category expand menu location phone mail time cart zoom edit close