Tigri fantasma
Lo scrittore Amitav Ghosh scrive di tigri in numerosi articoli e romanzi. Ci sono tigri nel Paese delle maree (Neri Pozza) e ci sono tigri anche nel primo saggio che compone il libro La grande cecità. In quest’ultimo testo Ghosh descrive le tigri delle Sundarban, la più grande foresta di mangrovie del mondo, fra India e Bangladesh, e la loro leggendaria capacità di muoversi non viste, come fantasmi, nel dedalo impenetrabile della giungla costiera. Appaiono, scompaiono e si muovono indisturbate, non viste dall’occhio umano.
Le tigri mettono a nudo la nostra incapacità di cogliere aspetti del mondo “naturale” ai quali non siamo abituati. Diventano così il simbolo dello spaesamento umano di fronte all’agire sovrannaturale di ciò che è non-umano. Tigri e cambiamenti climatici, suggerisce Ghosh, sono entità perturbanti, inspiegabili, davanti a cui siamo ciechi. La letteratura occidentale ha rimosso progressivamente questi protagonisti delle sue storie, relegandoli sullo sfondo, al ruolo di mere comparse o monotoni scenari.
Il libro di Brian Phillips
Il 1° ottobre è arrivato in libreria per Adelphi Edizioni un libro del giornalista Brian Phillips dal titolo curioso: Le civette impossibili (la traduzione è di Francesco Pacifico). Non starò qui a spiegarvi l’origine di questo titolo (scopritela da soli!), ma posso dirvi che gli otto saggi che compongono questo volume sono fra i più belli che ho letto di recente. Non riguardano un argomento specifico, ma sono accomunati da uno stile inconfondibile, spassoso e mai banale.

Uno di questi reportage, intitolato Mangiatrici di uomini, è dedicato alle tigri e ai safari nella giungla indiana. Phillips si è recato più volte in Asia per andare in cerca di tigri. Nel libro racconta la sua esperienza al Jim Corbett National Park, il parco nazionale più antico dell’India, famoso per la popolazione di tigri del Bengala che vive nel fitto della foresta.
Phillips racconta le contraddizioni che ha incontrato durante i safari e, soprattutto, la natura ineffabile di questi grandi felini. Per questo motivo ho deciso di pubblicare un estratto da questo reportage, la prima parte. Credo che metta bene in luce ciò di cui scrive Ghosh nei suoi saggi. Ciò di cui può rendersi conto un occidentale che si reca nella giungla indiana con l’obiettivo di adocchiare una tigre nel suo habitat.
Ringrazio Adelphi Edizioni per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicare il seguente estratto.

L’estratto
©BRIAN PHILLIPS
Published by arrangement with Farrar, Straus and Giroux, New York and The Italian Literary Agency
©2020 ADELPHI EDIZIONI S.P.A: MILANO
http://www.adelphi.it
Mangiatrici di uomini
Delle dodici tigri che ho visto in India, una forse era un fantasma; due erano in acqua, otto al suolo, una dormiva su un albero. Una è sbucata d’un balzo dall’erba alta, ha attraversato la strada davanti a me ed è scomparsa nell’erba sul ciglio opposto. Una camminava lungo il bordo di un’altra strada, ignara o indifferente ai turisti che le scattavano fotografie. Una ha sporto la testa da un riparo di rami e foglie rosse, nascosta tanto perfettamente che da dieci metri di distanza continuava a fare capolino e riscomparire come in uno stereoscopio. Tre erano cuccioli, di quattro o cinque mesi appena. Tre erano giovani, più o meno di un anno. Le altre erano adulte. Erano stanche, tutte, perché di giorno faceva caldo e, siccome era anche secco, camminavano e respiravano e dormivano in una patina di polvere color argilla.
Ogni mattina partivamo prima dell’alba, il momento ideale per provare ad avvistarne una. A quell’ora gli alberghi non servivano la colazione, ma alle quattro e quarantacinque, o alle cinque, o alle cinque e un quarto, in tavola venivano portati tè e biscotti allo zenzero, e a volte porridge o frutta. Spettrali safaristi in pantaloni mimetici e gilet stropicciati dall’intricata combinazione di tasche si riunivano in capannelli sommessi intorno alle pile di attrezzatura fotografica, sorseggiando Darjeeling da tazze di porcellana. Poi, dopo aver girato in macchina per tre, quattro ore, ci fermavamo, e le guide stendevano una tovaglia bianca sul cofano della jeep e ci apparecchiavano una colazione completa: uova sode su teglie di metallo e mele verdi e riso basmati e sezioni triangolari di sandwich al formaggio e sale in saliere di vetro scanalate. Si metteva il tè in infusione nell’acqua bollente, da bollitori alimentati con la batteria della jeep. Se ci eravamo fermati in un’area di ristoro nella foresta, c’erano bancarelle dove si poteva comprare chai caldo per venti rupie e Coca-Cola per cinquanta, e pure magliette, e libri fotografici sulla fauna selvatica ancora incellofanati. I turisti curiosavano tra i banchetti o lanciavano pezzetti di uovo ai cani randagi stesi nella polvere tra le jeep. Io ho comprato una Coca-Cola da un ragazzo che la teneva in una vasca termica di polistirolo tutta sporca, poi ho guardato il campo di cespugli neri dietro all’area di ristoro, chiedendomi quanto potessero avvicinarsi le tigri.
Di fatto non ho mai visto una tigre vicino a un’area di ristoro. Di fatto i soli animali selvatici che ho visto vicino a un’area di ristoro sono stati gli entelli, grosse scimmie dalla faccia di carbone che si radunavano a truppe lungo le strade della foresta, i piccoli aggrappati al collo della madre fissando il mondo con occhi quietamente stupefatti. A volte si vedevano famiglie di entelli grigi che saltavano tra i cespugli, e amavo guardarli perché amavo la loro corsa scalciante, tutta balzi in avanti sulla punta delle zampe posteriori e poi di quelle anteriori. Amavo gli entelli anche perché la loro presenza imperturbabile accanto a un’area di ristoro sembrava suggerire che, dopotutto, non ci fosse nulla di tanto strano in quella scena, che l’atto di comprare cappelli da baseball e libri d’arte nel bel mezzo di una giungla trasformata in riserva naturale non presentasse paradossi insuperabili, che la Coca-Cola e i baniani e i sandwich al formaggio e le scimmie fossero solo pezzi di un puzzle i cui confini erano, di necessità, confusi. Alla fine, la mia esperienza nelle giungle dell’Uttarakhand e del Madhya Pradesh mi ha insegnato a non fidarmi di questo modo di ragionare; finché è durato, però, mi ha dato conforto.
Non era difficile immaginare una tigre avvicinarsi silenziosa alla bancarella delle magliette, perché in presenza di una tigre ciò che colpisce più di tutto non è la stazza, o la forza, e nemmeno la bellezza, ma è la sua capacità di scomparire. Nei programmi sulla natura avrete sentito dire che le tigri sono furtive. Non è un’informazione che può prepararti a come sono davvero. Non vedrete mai una tigre che non abbia deciso di farsi vedere. Può darsi che una guida professionista, oppure uno degli abitanti dei villaggi nella foresta intorno alla riserva, riesca ad avvistarne una; per un essere umano normale, con sensi umani non addestrati, non c’è alcuna possibilità. Ecco come arriva una tigre: prima non c’è niente; poi c’è una tigre. Fuori da una delle uscite di Bandhavgarh, la fitta giungla che si trova nell’India centrale, c’è un’insegna sbiadita dal sole. Mostra una tigre, e accanto alla tigre è scritto: FORSE NON MI AVETE VISTO, MA NON SIATE DELUSI: IO VI HO VISTI.
È vero, l’arrivo di una tigre è spesso preceduto da momenti in cui sale la tensione, perché la presenza di una tigre modifica la giungla tutt’intorno, e tali cambiamenti sono più facili da rilevare. Il canto degli uccelli si fa più cupo. I piccoli di cervo si scambiano deboli richiami. Le mandrie non corrono, ma assumono forme che suggeriscono l’emergere di una consapevolezza collettiva di dove fuggire. Una sorta di brivido pare attraversare ogni cosa, un lieve brusio che fa – letteralmente, nel mormorio hindi delle guide – «tigre, tigre, tigre». Questa zona di apprensione segue la tigre nel suo movimento. Spesso la maniera migliore per trovare una tigre è spegnere il motore e ascoltare. Può capitarvi di udire, in lontananza, i sottili cambiamenti di tono e cadenza che indicano il confine di tale zona. Ma anche così è impossibile prevedere dove, o se, la tigre apparirà.
La prima tigre che ho visto era in una gola rocciosa nell’Uttarakhand, fra le basse montagne ai piedi dell’Himalaya. Eravamo parcheggiati sull’orlo della gola, e guardavamo in giù. Per diversi minuti prima che la tigre si mostrasse, un senso di agitazione è serpeggiato per tutta la gola. Un impulso impossibile da identificare ha fatto alzare in piedi gli occupanti umani delle jeep parcheggiate lì, gli ha fatto afferrare i binocoli con entrambe le mani. Due pavoni che stavano danzando sul fondo della gola hanno ripiegato le code e se la sono filata di soppiatto. Ed è stato molto strano: perché la tigre, fino a quando era rimasta invisibile, non era stata che un pericolo fatto di sola atmosfera, un’energia che permeava e riempiva la giungla intera di paura; quando è uscita allo scoperto, invece, sembrava curiosamente piccola e specifica, non più un’aura magica, ma una creatura costretta in un corpo, con le limitazioni di un corpo. Soprattutto, sembrava indifferente. Non era venuta a legittimare il mito che stavamo scrivendo per lei. Non era interessata all’atmosfera che creava, o ai suoni prodotti dal suo pubblico. Era accaldata, e qui c’era una pozza di acqua fangosa, e lei l’ha guadata; la sua partecipazione non è andata oltre. In qualche modo il suo distacco la faceva spiccare ancor meno. Quando è apparsa me l’hanno dovuta indicare. Stavo scrutando il fondo della gola, cercavo lei, e lei invece si era già allontanata di diversi passi, fuori dal riparo che le forniva la linea degli alberi, prima che i miei occhi registrassero la sua esistenza.
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Il link
La scheda del libro di Brian Phillips: qui.