“Ecoinciviltà” di Stefano Righetti
Spesso chi viene sorpreso a danneggiare l’ambiente viene bollato come “incivile”. Incivile è lo sversamento di liquami tossici in mare, incivile è chi butta una cartaccia a terra senza preoccuparsi di raggiungere un cestino e incivile è il comportamento di chi mette i propri interessi al di sopra di tutto, senza preoccuparsi della collettività, dell’ambiente, del pianeta stesso. Ma può la società stessa essere incivile? Possono i governanti che negano il cambiamento climatico, ritardano la transizione energetica e perseverano nello sviluppo infinito su di un pianeta finito essere incivili?
Mucchi Editore ha pubblicato un nuovo testo di Stefano Righetti, già autore del libro La ragione ecologica. Saggi intorno all’etica dello spazio (qui la scheda). Il nuovo libro – un e-book in realtà: Ecoinciviltà, la ragione ecologica spiegata all’umanità civile – è un breve pamphlet di stampo ecologista che ragiona, con ironia tagliente, sui controsensi del progresso umano, sulla nostra tendenza a illuderci che un bollino verde applicato su qualsiasi prodotto possa risolvere una crisi ecologica planetaria. L’autore insegna estetica presso diverse Accademie di Belle Arti e da alcuni anni la sua ricerca ha per oggetto le problematiche etiche e ecologiche relative al rapporto, codificato in senso produttivo dalla cultura occidentale, fra la temporalità e lo spazio; nonché l’idea di limite quale principio etico contrapposto al primato moderno della produzione.
Oggi pubblico un estratto da questo libriccino (dal capitolo 4); in questo passaggio l’autore racconta la passionale storia d’amore fra il mondo dell’auto e quello del petrolio, sia questo in forma di carburante o di componenti di plastica. Buona lettura.
L’estratto
L’estratto è pubblicato in accordo con Mucchi Editore, che ringrazio.
È vero però che la storia dell’auto si intreccia, fin dal suo inizio, con la storia del petrolio. E la storia del petrolio, come sappiamo, è diventata a un certo punto anche la storia della plastica. Era quindi necessario (che è ben diverso dal dire che era probabile, perché necessario è ciò che deve essere senza alcun’altra possibilità, e perché la necessità governa il mondo, come dicono i filosofi liberisti, intendendo per necessità ciò che ci manca, e che qualcuno si preoccuperà premurosamente di produrre e di venderci), era quindi necessario che la storia dell’auto e la storia della plastica si incontrassero, in ragione del loro comun denominatore (il petrolio) e procedessero insieme.
Le prime automobili di massa, quelle che uscivano nuove nuove dalla civiltà della fabbrica, alla metà degli anni 50 e ai primi anni 60, erano delle auto fatte quasi tutte ancora di ferro, e che avevano a bordo pochissime parti o cose di plastica. Come la Cinquecento, dove a parte le ruote di gomma, erano di plastica forse solo il volante, qualche interruttore sul cruscotto (ma il cruscotto era un cruscotto di ferro; e le levette dell’aria e dell’accensione, e pure il freno a mano erano di ferro anche questi), e la copertura dei sedili. Insomma, pochissime cose. Il ferro e l’acciaio erano da sempre, ed erano ancora, e lo sarebbero stati per lungo tempo, il simbolo stesso dell’umanità moderna, dell’umanità che costruisce ferrovie e vagoni, ponti per le ferrovie, trattori e carri armati eccetera. E per estrarre e lavorare il ferro l’umanità moderna non ha badato a rischi o a conseguenze di nessun tipo. Le miniere di ferro hanno infatti distrutto e devastato interi boschi e intere montagne, inquinato fiumi, laghi e terre in tutto il mondo, insieme alle miniere d’oro, d’argento, di diamanti e di ogni altra rarità sotterranea a cui la civiltà ha dato un qualche valore virtuale.
Per fonderlo e per lavorarlo, per farlo diventare il ferro e l’acciaio per lo sviluppo industriale della civiltà, l’umanità civile ha nuovamente distrutto foreste e montagne per estrarre il carbone con cui alimentare i forni nei quali il ferro viene fuso. Ha distrutto boschi secolari e tutta la vita che c’era in quei boschi, della quale non importava proprio nulla all’essere umano civile, come non gli importava nulla di chi non parlava la sua stessa lingua tecnica, di chi non aveva abbastanza ricchezze per comprare i prodotti della sua produzione e così via. E in questo modo, più la civiltà aumentava in potenza, più le foreste diminuivano di numero e di estensione. Perché erano un residuo del mondo incivile le foreste. Anzi, erano l’esatto contrario della civiltà, le foreste! E l’umanità civile aveva distrutto e abbattuto le foreste, albero dopo albero, per produrre nuovi pascoli e perché l’acciaio prendesse forma e dalla sua forma nascesse la civiltà che abbiamo detto «moderna».
Ed è stata una storia, se vogliamo, epica: uno sviluppo durato secoli, in contrapposizione e in conflitto con le superstizioni culturali e con i condizionamenti della natura. Lo sviluppo delle comunicazioni e delle ferrovie, la lotta alle malattie e la liberazione del sapere, l’emancipazione del lavoro e l’affrancamento dalle tradizioni… Nel bene e nel male, ognuna di queste cose era coincisa con l’epoca dell’acciaio o si era ulteriormente sviluppata con essa e, subito dopo, con l’avvento dell’elettricità. La Tour Eiffel è oggi il monumento simbolo di questa età, insieme alla Transiberiana, alle prime ferrovie americane e, ovviamente, alla prima industria dell’automobile.
Ma a metà degli anni Settanta, nelle nuove automobili, molte parti erano già del tutto (o quasi) di plastica. E la plastica (possiamo dire) è stata l’inizio di una nuova era. Di un’era in cui la materia doveva ormai declinarsi in nuovi componenti sempre più pratici e leggeri. Per cui se l’acciaio si è accompagnato allo sviluppo dell’elettricità, che in rapporto con la meccanica ha dato luogo all’elettrotecnica, la plastica ha sostenuto lo sviluppo di un’era ormai diversa, votata all’immaterialità delle comunicazioni elettroniche. Un’era in cui la materia ha assunto (possiamo dire) un’importanza minore, se non secondaria, rispetto alla trasmissione e all’elaborazione dei dati o all’informazione che occorre diffondere. La nuova era dell’informatica e dell’elettronica aveva perciò bisogno di una materia meno difficile da lavorare e in grado di riprodursi in oggetti sempre più piccoli e pratici.
Inoltre, la plastica ha un costo di produzione infinitamente minore dell’acciaio; non fa la ruggine ed è più facile da sostituire quando si rompe. E, soprattutto, qualsiasi pezzo di plastica, che a produrlo costa appena pochi centesimi, lo si può rivendere all’automobilista ad un prezzo mille volte superiore. Educato dalle pubblicità, dai messaggi televisivi e dalle riviste di settore a tenere la sua automobile in condizioni sempre perfette, a vivere anzi per la sua auto (perché l’auto vale più di tutto e della sua stessa vita), dal momento che dall’auto dipende la sua libertà, la sua immagine sociale e perfino la sua vita sessuale, l’automobilista non ci penserà due volte a comprare il pezzo di plastica di ricambio che a produrlo costa solo pochi centesimi, ma che a lui (o a lei) lo rivendono a mille volte di più. Ulteriore qualità, la plastica pesa poco, e le macchine che hanno molte parti di plastica pesano quindi meno di quelle costruite con più parti in acciaio e vanno perciò più veloci, che è la cosa che conta più di ogni altra per vendere auto a un automobilista che vuol correre il più veloce possibile nella sua incondizionata libertà. Per tutti questi motivi la plastica ha quindi sostituito nel tempo, e molto rapidamente, quasi ogni parte ferrosa dell’automobile: il suo rivestimento, il suo cruscotto pieno di pulsanti e di luci e finanche il paraurti, che è diventato a sua volta un paraurti fatto interamente di plastica. E se fosse stato possibile avrebbero fatto di plastica anche il motore, i finestrini e tutto il resto.
Il link
Su YouTube è disponibile un booktrailer: qui.