“Jón” di Ófeigur Sigurðsson
Oggi pubblico un estratto di un libro intrigante, pubblicato da Safarà Editore. L’intento è uno e uno soltanto: farvi venire voglia di leggerlo. Ma prima, due parole sulla storia. “Jón” è un romanzo epistolare, composto dalle lettere che il pastore protestante islandese Jón Steingrímsson – figura realmente esistita e molto conosciuta in Islanda – scrive alla moglie Þorunn, incinta del loro bambino. L’uomo sta scappando, perché è accusato dell’omicidio del precedente marito di Þorunn. L’anno è il 1775 e il palcoscenico l’Islanda sconvolta dalla distruttiva eruzione del vulcano Katla.
Il libro, scritto da Ófeigur Sigurðsson, ha vinto il Premio Europeo per la Letteratura. Inoltre, il titolo “Jón” è soltanto un’abbreviazione. Già, la forma estesa è questa qui: “JÓN & le missive che scrisse alla moglie incinta mentre svernava in una grotta & preparava il di lei avvento & dei nuovi tempi”. Non male, vero? Per voi ho scelto una missiva ben precisa, la sesta. Non badate troppo alla storia e ai personaggi (li scoprirete leggendo il libro!), qui non sono importanti: concentratevi sulla prosa e sulle atmosfere. Non sono intriganti?
L’estratto
La traduzione è di Silvia Cosimini.
L’estratto è qui pubblicato in accordo con Safarà Editore.
La sesta missiva
Nella grotta ci sembra di sentire tremori e rombi provenienti dal mare/che borbotta i suoi dubbi/contro la riva si infrangono onde poderose/hanno il potere di sedare/nel dormiveglia queste vibrazioni suonano il corpo/come se fosse uno strumento/un langspil*/che viene pizzicato/e s’eccita tutto/allora sei qui da me/nel letto/e io sono tutta un’arsione/focoso/sprofondo nell’estasi/mi piagano le tentazioni/non riesco a venir fuori/da questa situazione/devo abbandonarmi/immergermi senza paura/con l’aiuto di Dio/oltrepassare i confini/fino a te/sprofondo dentro questo sentire/sono sulla canoa/ho preso il largo/in mare/la barca sale e scende con le onde/nelle valli e sui monti/ma è salda/non ho paura/penetro nel divino/al riparo nel tuo petto/assopito in te/vedo i faraglioni di Reynisdrangar a ponente/è la verga dell’inferno/entra in mare/come un gigante/in forma umana/irrompe in acqua/porta un bambino sulle spalle/lo vedo dalla caverna/lo vedo chiaramente/e vedo me stesso su quella barchetta/la costa è l’orlo della veste del Katla/vesti nere/si distende/i flutti percuotono con insistenza la costa/il mio giaciglio trema/il faraglione/il gigante avanza in mare/il bambino è a cavalcioni sulle spalle/si diverte/il gigante affronta le onde di petto/si allontana a nuoto dalla costa/dai monti si odono sospiri di donna e un grande fragore/mi alzo in piedi sulla barca/indico al gigante/agitando le mani/come comportarsi/lo guido nel nuoto/perché non anneghi/continua a sbracciare/veleggia come una nave da guerra/una balena di metallo/fende le onde/lo sprono a continuare/anche il bambino/a tenersi forte/vedo il sole tramontare a ponente/all’ora canonica/si distingue sul mare/splende dal varco di Dyrhólaey/tanto che la luce lo riempie/di una gloria radiosa/il gigante vi nuota attraverso…
A volte preferirei morire piuttosto che uscire da qui al mattino/è come entrare in una tenebra viscosa/incollarsi in un impiastro/spolverato di cenere/non salire in superficie/respirare a stento/impigliato sul fondo/morire di sete/disarmato contro gli assalti/cercare di fare un ultimo bel sogno/liberarsi dalle catene/perché sia un bel giorno/ma il bel sogno si fa attendere/non viene/annaspo sul fondo/non trovo requie/mi sveglio più stanco che dopo otto giorni di veglia/o aver percorso gli altipiani/in pieno inverno/la lastra di vetro di Skúli è terribile! Fa luce piena nella grotta/per quanto fuori sia nuvoloso/la buona vecchia membrana era migliore per il nostro pertugio/limpida e trasparente come l’aria/rende la luce morbida e calda e buona per leggere/invece questa luce è dura e fredda/attraverso il vetro/Skúli può anche riprenderselo/e ficcarlo da qualche parte in quel suo palagio di pietre a Viðey/Þorsteinn entra cantando/io mi rintano nelle coltri/mi seppellisco nel letto/in posizione fetale/son tornato nell’utero/nella terra/chiedo a Þorsteinn di chiudere il pertugio/cucirvi una tenda/non voglio mai più uscire alla luce del giorno/poi dal focolare si spande il delizioso aroma d’avena cotta/col timo artico e la cetraria/adesso scendo dal letto, perdiana/con tutto quello che mi aspetta/non ci posso pensare/le trascrizioni/le recinzioni da alzare/l’edificazione della casa/la barca… prima bisogna che mi faccia un tè/fuori si è messo a grandinare/fa buio nella grotta/che fragore/un greve rimbombo/dal mare/dai cavalloni/fuori fa brutto/un vento gelido/sto per riaddormentarmi…
«Io sono il tuo fratello minore e dovresti essere tua svegliare me!». Þorsteinn fa il sostenuto: «E non sono nemmeno tua madre, figuriamoci la tua cameriera!».
… Ma quante lagne di primo mattino! Sono in piedi, e che zuppa d’avena! Þorsteinn è un cuoco provetto!
Ti chiedo, Þórunn, tu che sei savia e sai interpretare i sogni: il mondo del sogno non ha forse lo stesso valore del mondo della veglia? Nelle brevi giornate invernali quasi mi sento di mettere sullo stesso piano i due mondi, e fors’anche concedere più importanza al sogno che alla veglia. La morbidezza vince sulla durezza. A Þorsteinn non importa molto. In realtà sono convinto che nel sogno viviamo più vicino al divino. «Esistenze parallele in un’unica vita, Þorsteinn» gli dico. Il riposo è la premessa del vigore, affinché possiamo lavorare in pace di Dio durante il giorno. Pertanto sgobbiamo come schiavi di giorno per poter incontrare Dio durante la notte. Tutto deve succedersi nella giusta sequenza. Per noi la veglia quando dormiamo è quello che per noi è il sonno quando siamo svegli… sto cercando di ventilare i miei pensieri con Þorsteinn mentre sorseggio il tè a letto, ma egli questa filosofia invernale la chiama pigrizia, leti. Tale motto era talmente lontano da me che credevo stesse dicendo qualcosa in latino, leti: ovvero morte/distruzione/annientamento… sì, senza alcun dubbio è la corretta interpretazione di leti. Ma leti non si lega direttamente al sonno, perché è pigro chi dorme male e non ha le forze che si raccolgono nel riposo, oppure lavora molto nel sonno, nei campi del Signore nell’infinito… Þorsteinn fa un gran chiasso davanti al focolare, sbatte il paiolo… è ovvio che chi lavora la terra s’esaspera se l’aiuto cuoco è al cospetto di Dio e intanto è lui che deve occuparsi di tutto, come se lui fosse Marta e io Maria, recito una preghiera mattutina casalinga: «Gettate via il mondo e venite nel regno di Dio! I campi della terra si riflettono nella volta celeste!». Ma è meglio trascinarsi a forza giù dal letto e adoprarsi per fare qualcosa di utile per questo mondo! Per Dio! Per il re! Per la patria! Deo, regi, patriæ… Alleluia!
Fuori c’è ancora un tempaccio di bufera in bianco e nero. Bassi rombi si sentono dal Katla, dai marosi, dalla grandine… credo che sia più raccomandabile per la salute mentale cercare di scribacchiare qualcosa oggi, dal momento che non si può uscire. Qui mi attendono i miei scritti, le bozze, le belle copie, le trascrizioni, le ricopiature, le traduzioni: c’è un trattato medico, un erbario, un ricettario, il resoconto sull’eruzione, l’arte del navigare, e poi le saghe antiche, poemi e salmi e le preghiere dei marinai… non so da dove principiare, è tutto una gran confusione, vortici e congerie. Potrei anche continuare con la trascrittura delle Saghe dei Cavalieri e provare a venderle, se prima o poi riuscissi ad andare a Eyrarbakki. È l’unica cosa che la gente legge nella dissipazione: le romanze. Oppure quest’oggi potrei rimanere a letto e sognarmi nel tuo abbraccio. Ma il desiderio di legarmi a te con le parole mi tiene sveglio, poterle disporre in frasi diventa un sogno/il testo un sonno/la porta d’accesso per la gloria/via dalla zuppa d’avena di Þorsteinn o dalle stoviglie da lavare/dalle pietre e dal legname da trasportare sulla slitta/la felicità contro la fatica è avere con sé la poesia ovunque/in ogni cosa che faccio/per legarmi a te/attraverso la lontananza e i cambiamenti del clima nelle distese desertiche… invece il mondo è impietoso, freddo e smemorato.
Certe mattine ho talmente a noia la gente della Myrdalur che non so cosa fare di me stesso. È una brutta ossessione da cui mi devo liberare. È la stessa sensazione che avevo nella regione settentrionale. Tutte quelle voci torbide e indiavolate. Mi prende un vario disgusto per le persone, come se ci derubassero della nostra felicità. Ma questo non deve abbatterci, seguiamo piuttosto il volere di Dio, perché è stato Lui a inviarci fin qui. Non oso quasi dire a nessuno della mia formazione, che ho studiato da prete/so scrivere/leggere/un vero lusso – oltre ad amare una persona: un lussurioso imperdonabile! Ancor meno voglio far parola del fatto che intendo guadagnarmi il pane in questa campagna, poiché tanto è ripugnante la considerazione che la gente qui ha dei sacerdoti che tutti coloro che servirono in una parrocchia della zona, anche ottime persone, furon ricoperti di menzogne, cacciati e screditati. Per contro incontrai molti individui, stimati in altre regioni, servitori del Signore, guaritori, rispettabili, timorati di Dio, benintenzionati. Ma i chierici devono servire anche i bruti come servono Dio.
Þorsteinn mi ricorda che persi interesse per il sacerdozio e dissi di voler diventare un colono e coltivare la terra. Non so che diavolo voglia farne di me l’Onnipotente! Rispondo brusco a mio fratello… ma non si può dire una cosa del genere! Perdonami, mio Dio. E anche tu, cara Þórunn! E anche alla zuppa d’avena di Þorsteinn devo chiedere scusa, è superlativa e nutriente; sono profondamente grato per la vita che Dio mi ha concesso con te.
Parlo nel dormiveglia a letto, cerco di spiegare a Þorsteinn l’importanza di svegliarsi nel modo corretto, di trasferire i sogni, le sensazioni e le immagini intonse al di qua del confine, tramite la mano e in forma di parole. Si chiama vox somniōrum. Non è una forma letteraria tanto agevole. Durante il sonno i poeti sudano come a svolgere un lavoro di fatica. In quel momento si trovano nei campi. C’è un mondo intero costretto e bloccato nella coscienza della veglia e v’è solo un varco tra pochi attimi alla sera e al mattino, in catene, sul limitare. Non è facile avventurarvisi con la penna. Þorsteinn questo non lo capisce e mi sveglia spesso fischiettando e sbattendo i tegami. Non gli piace star desto da solo. Vuole comprendere che cosa sia la vox somniōrum non se ne dà il tempo per farlo, le poesie sono le informazioni emotive del mondo dei sogni/il tergo della realtà che si trasferisce con molta fatica sulla carta…
«Non vuoi alzarti e mangiare la zuppa, caro Jón, non hai fame, non hanno finito le provviste nell’altro versante?».
Che spiritoso!
* Antico strumento islandese appartenente alla famiglia dei cordofoni, simile alla cetra [N.d.T.]
Il link
Nel link quest’oggi trovate la scheda del libro sul sito di Safarà Editore.