Noi vivi non siamo soli, non dobbiamo scrivere come se lo fossimo.
Primo Levi, L’altrui mestiere (Einaudi)
Possibile che a trent’anni uno non abbia mai visitato Firenze? Possibilissimo; io, per esempio, non ci ero mai stato prima. Questa mattina il capoluogo toscano mi ha accolto con volto grigio, umido di pioggia. Sono arrivato in perfetto orario, a bordo di un Frecciarossa partito da Torino quando era ancora notte (perché quella che ho lasciato dietro di me, ore fa, non poteva proprio dirsi mattina). E via con zaino e trolley rotante, per vie dai nomi medievali che, dannazione, a Torino mancano proprio (via delle bombarde, tanto per dirne una!).
Dopo un caffè veloce ed un’occhiata al Duomo, eccomi all’Accademia di belle arti di Firenze. Mi accolgono i responsabili della Consulta degli studenti, organo a cui devo la mia presenza qui (e che, dunque, ringrazio calorosamente). L’aula è spartana: un armadio pieno di latte ricolme di colore e una scala pesante e vecchia che conduce chissà dove; il posto perfetto per dedicarsi alla pagina bianca, agli esercizi, alla scrittura. Uno dopo l’altro arrivano tutti i corsisti, gli studenti che hanno scelto di seguire questo workshop extra-curriculare. Li osservo: la maggior parte di loro è di origine cinese (una dozzina in tutto); quattro, invece, sono ragazzi italiani.
Zhei, Siue, Zhen Ning e i loro compagni mi ascoltano parlare. Vedo i loro polpastrelli spostarsi rapidi sugli schermi dei cellulari: traducono le parole scritte sui fogli che ho consegnato loro. E, arrivato il momento degli esercizi, scrivono. Sono giovani che parlano poco l’italiano, che non sanno chi siano Stephen King o Primo Levi. Tuttavia, come ogni essere umano che si confronta con la pagina bianco, sono pieni di storie, di emozioni, di idee: la difficoltà sta nel trovare le parole giuste. A volte li aiuta Google, a volte proviamo insieme a buttare giù una frase. I loro testi sono grezzi, ma possiedono un certo fascino, perché ascoltandoli si intuiscono immagini, ricordi e sensazioni in controluce, come se fossero appena percettibili o nascosti sotto a un velo.
Che sfida! Non mi ero certo aspettato partecipanti di questo tipo, ma mi sono adeguato subito: ho notato che il mio discorso si è fatto più lento e meno articolato, ho percepito la mia mente lavorare sodo alla ricerca di termini semplici da utilizzare per spiegare concetti quali la relazione scrittore-lettore o la precisione narrativa come la intende George Saunders. Le tre ore sono volate. I partecipanti scrivono e leggono i testi che hanno buttato giù. Noto che i ragazzi cinesi spesso leggono sottovoce, come se fossero timorosi dei loro elaborati. Per cui li faccio alzare in piedi e cerco di tirar fuori la loro voce.
Parlo di quanto sia importante la cura di un testo, di quanto sia utile per la riuscita di uno scritto la consapevolezza (da parte di chi tiene la penna in mano) della presenza di un’entità ben precisa e fondamentale: il lettore. Leggo loro frasi di Natalie Goldberg, di Primo Levi. Durante il primo esercizio, la maggior parte dei partecipanti decide di partire da una frase ben precisa fra tutte quelle che ho proposto come spunti: dove mi piaceva vivere. Parlano del passato, di paesi lontani, di quando hanno visto Kobe Bryant a Los Angeles danzare sul parquet (“prima che andasse in pensione”). Dove mi piaceva vivere. Scrivere porta a galla i ricordi, sempre. Che tu sia fiorentino, torinese o nato da qualche parte a nord di Pechino.